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Consulenza tecnica di ufficio e onere della prova

Ferruccio Auletta Anticipazione del fascicolo n. 2/2025

Relazione tenuta in occasione del convegno dal titolo L’onere della prova nel sistema giurisdizionale svolto presso l’Auditorium del Rettorato dell’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara nei giorni 5 e 6 dicembre 2024.

 

Sommario: 1. Il legame profondo tra principio dell’onere della prova e consulenza tecnica d’ufficio. – 2. Decisione con efficacia di giudicato e valore sociale delle affermazioni giudiziali. – 3. La concludenza del procedimento di c.t.u. – 4. Divieto di non liquet, negoziabilità dell’onere della prova e indefettibilità della tutela giurisdizionale. – 5. Indefettibilità del potere di disposizione della c.t.u. – 6. Natura di contenitore neutro del procedimento di c.t.u. e riflessi del diritto sostanziale. – 7. Monopolio di parte dell’allegazione e pluralità di funzioni del procedimento di c.t.u. – 8. L’istanza di ammissione della c.t.u. quale nucleo del potere di allegazione – 9. Modulazione dell’onere di allegazione e sua riduzione estrema all’istanza di ammissione della c.t.u. – 10. Onere di allegazione, dovere acquisitivo, funzione residuale di garanzia dell’art. 2697 c.c.

 

 

  1. Il legame profondo tra principio dell’onere della prova e consulenza tecnica d’ufficio.

Le ragioni della combinazione tra onere della prova e consulenza tecnica sono – direi – intuitive. L’interferenza è costituita dal fatto che l’allegazione e la prova, disciplinate dall’art. 2697 c.c., tendono – quali oneri – a gravare unicamente le parti; e invece l’istituto della consulenza tecnica, che pure insiste su entrambi quei fenomeni, sembra allo stesso tempo esporli a concorrenti esercizi facoltativi del giudice. Quindi, per l’attrito evidente, la giurisprudenza va continuamente alla ricerca di punti di equilibrio.

In una raccolta di scritti pubblicata quest’anno, sotto lo stesso titolo del nostro convegno di oggi, a cui hanno contribuito processual-civilisti e civilisti, il tema, qui affidato a me, è stato trattato da Vincenzo Ansanelli, il quale ne conclude nel senso che l’equilibrio olim rinvenuto in giurisprudenza (tra i due elementi dell’onere della prova e della consulenza tecnica) sarebbe di già perduto.

In realtà, a leggere le declamazioni giurisprudenziali, queste restituiscono posizioni di permanente nettezza, a cominciare dall’enunciato fondamentale per cui la richiesta di ammissione della consulenza tecnica non può tener luogo dell’assolvimento dell’onere probatorio originariamente ricadente sulla parte istante. Si tratta di un vero e proprio refrain della giurisprudenza.

Né mancano affermazioni secondo cui anche (oserei dire: finanche) nel giudizio arbitrale la consulenza tecnica non è destinata a esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle relative richieste; fatti che devono, perciò, dimostrarsi a cura della stessa parte, alla stregua dei criteri di ripartizione di cui all’art. 2697 c.c.

Tuttavia, tra principio dell’onere della prova e potere di nomina del consulente tecnico corre una base profonda a tenerli insieme: entrambi condividono, sotto profili diversi, l’aspirazione alla stabilità della decisione. Potremmo dire, all’estremo, che si tratta di accezioni diverse del significato della cosa giudicata materiale.

 

  1. Decisione con efficacia di giudicato e valore sociale delle affermazioni giudiziali.

Il principio dell’onere della prova consente al giudice in ogni caso di decidere con efficacia di giudicato; il potere di dare ingresso alla consulenza tecnica, parimenti, gli consente di attribuire un valore sociale, democratico-veritativo, alla regiudicata comunque attingibile per la mancanza sperimentata di uno standard probatorio maggiore, levandole così, per quanto possibile, la componente più odiosamente formale o solamente autoritaria.

Nel giudizio statuale la regola di giudizio derivata dall’onere della prova deve essere l’extrema ratio, dato che il grado di accettabilità sociale di una decisione dipende specialmente dalla consistenza delle prove che ne costituiscono il fondamento, ed è massima quando la prova assume le fattezze del tipo storico-positivo.

Ora, la consulenza tecnica e la sua disponibilità officiosa realizzano prevalentemente modi attraverso i quali l’incidenza statistica dell’impiego della regola formale (actore non probante reus absolvitur) può essere ridotta e, in fine, evitata; e ciò accade perché la serie dei fatti secondari selezionabili dal consulente consente normalmente di affermare la coincidenza probabile o l’incompatibilità col factum probandum; in altre parole: di offrire comunque una presunzione, quale prova (diretta) del (o contraria al) fatto da provare. In breve, la vera caratteristica della consulenza tecnica, diversamente dai mezzi di prova la cui rilevanza si offre solo se in caso di successo, è che la sua rilevanza (ovvero, l’efficacia probatoria) si dà in ogni caso.

 

  1. La concludenza del procedimento di c.t.u.

Nella ricerca monografica alla quale mi ero dedicato più di vent’anni fa avevo usato l’espressione “concludente”, un’espressione che specie nella letteratura giuridica tedesca – “schlüssigkeit” – è assai densa di significato. La dottrina spagnola, di contro, fa uso – specificamente avendo riguardo al procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico – dell’espressione “medio de prueba bilateral”, che è abbastanza indicativo della circostanza per cui una presunzione, diretta o contraria, costituisce la sorte naturale del procedimento di consulenza tecnica.

In aggiunta, la regola formale di giudizio basata sull’onere della prova si potrebbe dire eticamente incompatibile con la soluzione di alcune controversie; si pensi ai diritti indisponibili o alle controversie in materia di status. Dunque, sentenze che devono essere rese in nome del popolo trovano nella consulenza tecnica un sollievo dalla regola estrema in favore dell’incremento della base razionale e del consenso sociale della decisione.

Ricostruita così, la relazione tra l’onere della prova e la consulenza tecnica non è più di intuitivo antagonismo, e la consulenza si rende, ricorrendone i presupposti, l’ultimo tentativo di evitare una pronuncia fondata esclusivamente sul principio di cui all’art. 2697 c.c. (o di quel suo equivalente logico che sta[va] nell’art. 479 c.p.p. abr., secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di assoluzione per insufficienza di prove”).

Del resto, alla voce di Fabbrini, “potere del giudice”, nell’Enciclopedia del diritto, da quarant’ anni (1985), si legge che una delle ragioni del conferimento di poteri istruttori al giudice, in generale, è da individuarsi esattamente in ciò che vado dicendo.

 

  1. Divieto di non liquet, negoziabilità dell’onere della prova e indefettibilità della tutela giurisdizionale.

Si potrebbe, allora, dire – forse forzando la mano, e però non più di tanto – che in alcuni dei casi in cui è ammissibile la consulenza tecnica, se poi così non fosse, in termini democratico-veritativi sarebbe socialmente più accettabile la pronuncia di non liquet.

Di recente Antonio Cabral ha condotto uno studio, già oltre la seconda edizione,  il cui titolo è – traduco dal portoghese – “Giurisdizione senza decisione”. Vi si assume l’assenza – nell’ordinamento brasiliano, beninteso – di impedimenti costituzionali e, in via di principio, l’ammissibilità di pronunce di non liquet a determinate condizioni di insuperabilità nella cognizione dei fatti (e non solo dei fatti, secondo l’Autore); decisioni vere e proprie che, in ultimo, procurerebbero stabilità – come si dice lì – coeteris paribus (noi parleremmo di “giudicato allo stato”), dunque con la forza non della regiudicata in senso stretto, ma vincibile col rinnovato esercizio dell’azione, quando fondato su elementi nuovi: nuovi fatti, nuove prove, nuove norme.

Del non liquet l’autore ammette un’introduzione anche per via convenzionale.
Col lessico del nostro ordinamento, sarebbe come dire che, poiché noi si ricava il divieto di non liquet dall’art. 2697 c.c., che è una norma di legge ordinaria, allora del divieto le parti possono disporre. Del resto, l’art. 2698 c.c., sotto il profilo della regola distributiva che risiede nella stessa disposizione precedente, riconosce l’agibilità in via di principio di patti; e quindi, in qualche misura, implicandone la disponibilità ultima.

Sennonché, mi pare di dovere segnare la differenza rispetto all’ordinamento brasiliano, ribadendo come da noi si ascriva il divieto di non liquet all’indefettibilità costituzionalmente imposta della tutela giurisdizionale, e quindi si debba negare recisamente l’ammissibilità del non liquet: se, insomma, si può negoziare sulla distribuzione dell’onere della prova (il quomodo della tutela), non si può per questo assumere la disponibilità della giurisdizione e della relativa continuità funzionale (an), che rappresenta, quale corollario della sua intima effettività, un portato diretto della Costituzione, non tanto né soltanto dell’art. 2697 cit.

 

  1. Indefettibilità del potere di disposizione della c.t.u.

In linea di massima, la permanente diversità, col seguito della loro naturale scindibilità, tra il divieto di non liquet e il principio dell’onere della prova trova riscontro in quello che Mauro Bove, per esempio, scrive a proposito del divieto del non liquet, che certo vale anche per gli arbitri. Essi hanno un obbligo contrattuale di pronunciare il lodo entro un termine dato, ma affermare – sostiene M. Bove – la sussistenza di un simile obbligo non significa anche dire che debba trovare attuazione per mezzo dell’applicazione di quella stessa regola di giudizio che la legge detta per il giudice statuale. Il caso di un’insufficienza della prova dei fatti costitutivi del diritto azionato, per esempio, potrebbe essere risolto sulla base della verosimiglianza delle allegazioni effettuate quale criterio alternativo rispetto all’art. 2697 c.c.

Un riflesso di tanto sul tema di cui più direttamente mi occupo sta in questo: se la regola estrema dell’onere della prova ha certo rango ordinario, derogabile – come attesta, del resto, l’art. 2698 c.c. – fino ad ammettere patti al riguardo, invece la consulenza tecnica, che sta in rapporto all’indefettibilità costituzionale della giurisdizione, non ne tollera. Il procedimento di istruzione mediante consulente tecnico, sia quale potere processuale conferito alla parte come manifestazione del diritto di azione, che riconosciuto al giudice come strumento di approssimazione ai valori scientifico-razionali riconosciuti dalla comunità, nel nome della quale egli amministra la giustizia, risponde a funzioni costituzionalmente protette, almeno nell’ambito statuale. E poi la struttura del procedimento stesso ripete, in fondo, il modello costituzionalizzato del processo, di cui costituisce una sorta di alternativa legittima quanto al segmento della fase di istruzione probatoria.

Sotto la direzione del giudice, a ben osservare, si svolge una sorta di procedimento bonsai, sostanzialmente caratterizzato da una capacità di introdurvi fatti proprio al modo in cui tanto avrebbe potuto formalizzarsi attraverso un’istruzione probatoria condotta secondo i mezzi di prova, e però davanti a un soggetto in posizione – direi – vice iudicis, che è il consulente tecnico.

 

  1. Natura di contenitore neutro del procedimento di c.t.u. e riflessi del diritto sostanziale.

È un contenitore neutro la consulenza tecnica d’ufficio, una sorta di succedaneo deformalizzato della normale istruzione probatoria, adatto a ricevere in forme essenziali, ma rispettose del contraddittorio, una a una le fonti la cui assunzione troverebbe, davanti a giudice, un autonomo e separato procedimento di accesso. Per Costituzione, la legge non potrebbe impedire al giudice di valersi del consulente imparziale, né alle parti, tantomeno a una soltanto, di non usare questo strumento. Uno strumento definibile a capacità variabile, anche se dipende veramente dal diritto sostanziale togliere eventualmente alla posizione pretensiva fattori ingredienti della relativa istruzione probatoria: l’essenza processuale della consulenza tecnica rimane, infatti, subordinata all’eterodeterminazione del diritto sostanziale, che può stabilire quali siano i mezzi utilizzabili per la prova del diritto sub iudice, e quindi potrebbero ricorrere ragioni sostanziali prevalenti a escludere, per la prova di un determinato diritto, specifici mezzi (arg. ex art. 2729, comma 2, c.c.). Sennonché, di limiti del genere risentirebbe inevitabilmente lo strumento processuale, che è destinato, in modalità deformalizzata, a raccoglierne il risultato. In altre parole, rimane incompatibile col presupposto legittimante la consulenza tecnica d’ufficio la ricerca della prova del pagamento, invero non raggiungibile ex art. 2729 c.c. mentre al procedimento istruttorio de quo rimane invece «necessario» che il fatto principale costituisca oggetto ammissibile di presunzione.

L’ordinamento processuale soltanto deve garantire, il che fa – appunto – mediante il procedimento di consulenza tecnica, che le forme ordinarie di assunzione delle fonti di prova non frustrino le possibilità legittime e reali della parte di ottenere un provvedimento che, conclusivamente, non derivi dalla sola incapacità soggettiva di offrire la dimostrazione del fatto rilevante; e, sempre mediante la consulenza tecnica, l’ordinamento processuale, impedisce pure che una decisione resa in nome del popolo possa farsi sostanzialmente repulsiva di valori che la società già riconosce, in quanto accreditati da una comunità tecnico-scientifica di esperti, deputata all’ elaborazione di tali valori; valori che l’esperto, quale che sia la natura della consulenza tecnica (usando le categorie della giurisprudenza: percipiente o deducente, accertativa o valutativa) è sempre in grado di trasferire.

Uso l’espressione “valori” perché qualunque consulenza tecnica in senso proprio, anche direttamente e unicamente applicativa di determinate regole, in realtà implica la posizione di fatti di portata regolare, di fatti normativi, ancorché non giuridici, ma pur sempre normativi. Il più essenziale dei procedimenti di consulenza tecnica, fatta – cioè – di nuda applicazione di regole, in realtà implica la posizione di almeno un fatto regolare, cioè di un fatto che, sotto il profilo eventualmente soltanto statistico, ha una portata normativa.

Per sintetizzare: si può avere un processo la cui regola distributiva non sia quella dell’art. 2697 c.c., ma non si può avere processo senza consulenza tecnica d’ufficio.

 

  1. Monopolio di parte dell’allegazione e pluralità di funzioni del procedimento di c.t.u.

Quindi, allo stato, l’equilibrio che la legge ordinaria realizza, essendo entrambi gli elementi messi a confronto governati dalla legge ordinaria (quell’equilibrio perduto, secondo Vincenzo Ansanelli), dev’essere ulteriormente ricercato, e il tentativo da operare è di verificare se l’art. 2697 c.c. possa mantenere una funzione, questa sì insurrogabile, di garanzia nei confronti del giudice, quella che mi appare come il nucleo ideale della posizione del professor Verde, vale a dire dell’art. 2697 come ultimo baluardo di fronte all’iniziativa del giudice.

A mio avviso, l’art. 2697 c.c. può ancora svolgere un ruolo siffatto, segnatamente nei confronti anche della consulenza tecnica, a condizione che lo si legga come fonte dalla quale mutuare, con la stessa modulazione dell’onere della prova, l’onere dell’allegazione.

L’onere dell’allegazione è modulato sull’onere della prova, ma lo precede logicamente. Può essere in realtà, a certe condizioni, quello e proprio quello che ha da essere ineludibilmente riferito esclusivamente alla parte, e che potrebbe riassumersi, alle condizioni che proverò a indicare, nella sola istanza di nomina del consulente tecnico. Insomma, il punto cruciale arretra e finisce per essere individuato, fino a coincidere nei casi estremi, con quello relativo all’onere dell’allegazione quale insopprimibile e infungibile riserva all’iniziativa di parte.
Traggo dai repertori della giurisprudenza alcune affermazioni, quali: “benché le parti non possano sottrarsi all’onere della prova a loro carico, invocando per l’accertamento dei propri diritti una consulenza tecnica d’ufficio, è tuttavia consentito al giudice fare ricorso a quest’ultima per acquisire dati la cui valutazione sia poi rimessa allo stesso ausiliario (cosiddetta consulenza percipiente), purché la parte, entro i termini di decadenza propri dell’istruzione probatoria, abbia allegato i corrispondenti fatti, ponendoli a fondamento della sua domanda ed il loro accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche. Tuttavia, anche in siffatte ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti, nell’insufficienza dei quali, quindi, non può procedersi all’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio”.

Del resto, la funzione di garanzia, che è insita nel potere di allegazione, mi sembra comprovata nella parte generale del codice di procedura civile, se è vero quello che abbiamo imparato dal (manuale del) professor Verde, dove con enfasi si insegna che finanche il fatto notorio è oggetto dell’onere di allegazione, perché il codice dispensa al riguardo dalla prova e basta (“senza bisogno di prova”), non anche dall’allegazione. Dunque, persino il fatto notorio va allegato dalle parti.

L’allegazione o posizione del fatto è compito sempre riservato alle parti, che devono inalienabilmente realizzare una seppure minima affermazione linguistica al suo riguardo, assistita da compiutezza e munita di un segno positivo o negativo. Tuttavia, la massima esasperazione dell’onere di posizione del fatto non potrebbe giungere a tradursi nell’esigere dalla parte di enunciare completamente e analiticamente tutte le circostanze, anche quando integrate da fatti secondari ignoti, ignorati per la loro intima natura tecnico-scientifica, perché la collettività generale non li conosce (non sa decrittarli). Mentre tutti i fatti principali o secondari di ordinaria esperienza possono costituire senz’altro oggetti di onere di allegazione e di prova esigibili, all’inverso il fatto secondario non accessibile indiscriminatamente, siccome di natura tecnica o scientifica, non può farsi oggetto di adduzione ex parte necessariamente analitica. Pertanto, l’esonero, secondo logica, della parte interessata all’allegazione di tal genere di fatti secondari, se non si vuol compromettere l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, non può implicare altro che questo, che – cioè – l’allegazione in modo virtuale di questi fatti avvenga legittimamente mediante la sola istanza di nomina del consulente tecnico.

 

  1. L’istanza di ammissione della c.t.u. quale nucleo del potere di allegazione.

Sull’ultimo numero del Giusto processo civile – siedo di fianco a uno dei Direttori – Francesco Campione ha scritto un interessante articolo criticando questa mia posizione, relativa alla forma della domanda di ingresso del consulente tecnico d’ufficio in circostanze del genere qui descritto.

Ha scritto l’Autore che l’onere della parte si riduce all’allegazione, e che un’apposita istanza è chiaramente preferibile, purtuttavia dovendosi evitare il rischio di applicazione sfavorevole dell’onere della prova nei confronti proprio della parte che non può essere costretta alla posizione specifica di un fatto, i cui connotati di consistenza tecnica ignori; e quindi, sostiene F. Campione, non essendoci una prescrizione ad hoc, nemmeno è esigibile che quella parte faccia domanda formale di ingresso del consulente tecnico d’ufficio nei termini che ha a sua disposizione, sicché sarebbe sostanzialmente sufficiente la mera allegazione della serie delle condizioni che rendono al contrario inesigibile un’allegazione più puntuale.

Ora, fermo che trattasi di ricostruzione non implausibile e perfettamente rispettabile, mi sembra che abbia bisogno, però, di qualche chiarimento. Anzitutto: la posizione di un fatto, anche del tipo di cui si discute qui, non può mai essere elemento che deriva dal giudice; anche quando il giudice elabora il quesito e, per ipotesi, vi faccia rifluire uno di quei fatti che si presume che la parte non abbia capacità di allegare specificamente e analiticamente, in realtà è più corretto dire non tanto che il giudice pone tali fatti, ma (al massimo) che quei fatti il giudice sup-pone, nel senso che un’allegazione in senso proprio, che si manifesta attraverso una minima affermazione linguistica compiuta e dotata di segno (esiste o – al contrario –  non esiste un fatto), il giudice non può mai fare; il giudice può – dunque –  supporre un dato fatto, ma non può mai porre (allegare) quel dato fatto.

La posizione di quel dato fatto risale, deve in ultimo risalire aut alle parti aut al consulente tecnico, ma la sua traccia ombelicale, nel che sta l’assolvimento dell’onere di allegazione, è cosa esclusiva delle parti, il segno della garanzia attualmente ricavabile dall’art. 2697 c.c., e, perciò, deve consistere nel minimo fenomenico nell’istanza di nomina del consulente tecnico.
Quando la consulenza tecnica viene richiesta, e dunque la serie dei fatti secondari originariamente inaccessibili entra nel processo, in realtà la parte che ha fatto istanza assomma su di sé, in un contesto interamente auto-responsabile, non soltanto, in linea di principio, il rischio di accollo dell’integrale anticipazione delle spese – profilo da noi non veramente considerato in maniera seria, ma, per esempio, in Germania investigato fino alle ascendenze costituzionali –, ma anche il rischio peculiare, per la caratteristica di medio de prueba bilateral e in ogni caso concludente che è la consulenza tecnica, di rimanere sconfitta, perché il relativo procedimento è sempre idoneo alla posizione del fatto in senso opposto a quello predicabile dalla parte ma in concreto non predicato per avere, la parte stessa, riassunto il suo onere dell’allegazione nella mera istanza di nomina del consulente tecnico.

 

  1. Modulazione dell’onere di allegazione e sua riduzione estrema all’istanza di ammissione della c.t.u.

Allora, alcune affermazioni giurisprudenziali meritano più attenta considerazione nel tentativo di (ri-)creare un punto di equilibrio praticabile tra (indefettibilità dell’) onere di allegazione e (indefettibilità della) consulenza tecnica, più che tra onere della prova e consulenza tecnica, per riconoscere nitidamente un rapporto di proporzionalità inverso: quanto più diminuisce l’onere di allegazione verso la minima unità fattuale, tanto più deve aumentare l’onere di domandare l’ingresso del consulente tecnico; ciò da cui naturalmente si ricava che, all’estremo, l’istante, mentre accolla a sé tutti i costi almeno in via di anticipazione, sopporta pure il massimo rischio di esito concludentemente ostile alla propria posizione. A fronte, invece, della massima unità fattuale esigibile quale allegazione della parte, l’istanza di nomina del consulente tecnico non costituisce più onere indeclinabile, e, piuttosto, deve rimanere, al limite, lo spazio soltanto per l’ulteriore iniziativa dell’ufficio, in tal modo da fare riserva al giudice della (parimenti indeclinabile) funzione di consulenza deducente.

 

  1. Onere di allegazione, dovere acquisitivo, funzione residuale di garanzia dell’art. 2697 c.c.

Con la decisione della Corte di cassazione n. 11564 del 2015, data in causa derivante da accertamenti relativi alla violazione delle regole sulla concorrenza, la Corte ha cassato la sentenza d’appello in quanto responsabile di aver applicato meccanicamente (si direbbe, troppo meccanicamente) la regola di giudizio dell’onere della prova, senza valutare l’opportunità di attivare i poteri istruttori, anche d’ufficio, e mostrando di non cogliere la specifica peculiarità della controversia.

In uno stralcio della motivazione si legge, in buona sostanza, che il giudice è chiamato a rendere effettiva la tutela dei privati che agiscono in sede giurisdizionale in presenza di paventate violazioni del diritto della concorrenza, tenuto conto dell’asimmetria informativa esistente tra le parti nell’accesso alla prova, anche mediante un’interpretazione delle norme processuali in senso funzionale all’obiettivo di una corretta attuazione del diritto della concorrenza; nel caso di specie, osserva la Corte di cassazione, si sarebbe dovuto attivare il potere di indagine attraverso la consulenza tecnica, perché la parte aveva assolto all’onere di indicare in modo sufficientemente plausibile seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza e a ledere il proprio diritto di godere del beneficio della competizione commerciale (si avvertiva già la modulazione argomentativa ripresa dal più recente trend specialmente evidente nella conformazione legislativa di particolari poteri di esibizione ex art. 210 c.p.c.).

In ultimo, il punto di nuovo equilibrio da ricercare non è più, forse, quello che si colloca tra onere della prova e consulenza tecnica, ma tra onere di allegazione e consulenza tecnica, quasi a riproporre in scala la situazione peculiare al processo di annullamento in sede amministrativa, dove si combina l’assolvimento del principio di allegazione col dovere acquisitivo dell’ufficio, allegazione da assolvere fino al punto in cui appaia in giudizio concretamente indisponibile ogni onere ulteriore in capo alla parte sì da legittimare (fino alla doverosità) l’intervento istruttorio ex officio. Al riguardo, Andrea Panzarola ha ricostruito l’onere dell’allegazione in termini di concludenza indiziaria verso l’indisponibilità della prova (ulteriore) – non del factum probandum – da cui sorge(rebbe) la situazione legittimante l’intervento officioso. In altri termini, la (in-)disponibilità della prova è una situazione processuale che, in termini di allegazione presuntiva, legittima la surrogazione nell’onere spettante alla parte interessata alla prova del fatto.

Non credo che a tanto sia d’ostacolo la giurisprudenza delle Sezioni unite che si è inaugurata nel 2022 con le cosiddette Sentenze gemelle, là dove, come tutti ricordano, l’unico limite che viene posto è quello di sanzionare, con la nullità rilevabile d’ufficio della relazione in parte qua, che il perito abbia indagato su temi estranei all’oggetto della domanda, pervenendo al risultato di stimare la fondatezza della pretesa esercitata dall’attore in base a fatti diversi da quelli allegati dal medesimo, e quindi conservando quel nucleo fondamentale di garanzia dell’onere di allegazione che, adesso, integra l’ultima traccia della funzione impressa al processo dall’art. 2697 c.c.

Per dirla con Giuseppe della Pietra, il giudice non dev’essere Sherlock Holmes né il CTU Watson.

 

Nota bibliografica

  1. Ansanelli, Consulenza tecnica e onere della prova. Alla ricerca dell’equilibrio perduto, in Aa.Vv., L’onere della prova, a cura di Anelli e Orlandi, Milano, 2024, 74; F. Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, 2002; Id., La consulenza tecnica nel giudizio arbitrale: onere della prova e accertamento tecnico, in Riv. arb., 2015, 757; Id., La prova scientifica: diritto, epistemologia, strumenti d’acquisizione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 461; Id., L’istruzione probatoria mediante consulente tecnico: la Corte profert de thesauro suo nova et vetera, in Giur. it., 2022, 2136; Id., Lo stato presente della consulenza tecnica d’ufficio nei giudizi civili, in Aa.Vv., La consulenza tecnica d’ufficio. Funzioni, oggetto, sindacabilità, a cura di Patti e Poli, Torino, 2024, 3; F. Auletta – S. Rusciano, Prova giudiziale civile, Torino, 2025; F. Auletta – A. Scarpa, La scelta del Ctu è veramente “cosa del giudice”?, in Giust. insieme, 2009, 93; M. Bove, L’istruzione probatoria nel giudizio arbitrale, in Giusto proc. civ., 2014,961; A. Cabral, Jurisdição sem Decisão: Non Liquet e Consulta Jurisdicional no Direito Brasileiro, 3ed., Pituba, 2025; F. Campione, Contratti sinallagmatici, inesatto adempimento e onere della prova. Il problema dell’accertamento dell’inesattezza qualitativa della prestazione, in Giusto proc. civ., 2024, 727; V. Capasso, Tractent fabrilia fabri. Contributo all’affermazione del «diritto al consulente tecnico» nel processo civile, Torino, 2025; G. Carlizzi, Iudex peritus peritorum, in Dir. pen. contemp., 2017, 2, 27; B. Cavallone, Discutibili esercizi di nomofilachia. La consulenza tecnica d’ufficio in Cassazione, in Riv. dir. proc., 2022, 981; G. della Pietra, E le parti stanno a guardare: le Sezioni Unite e la consulenza tecnica d’ufficio, in Dir. proc. civ. it & comp., 2023, 714; G. Fabbrini, Potere del giudice. (dir. proc. civ.), voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1985, XXXIV, 721 ss; A.M. Felicetti, L’ordine di esibizione nel prisma dell’armonizzazione europea: riflessioni a margine della modifica all’art. 210 c.p.c., in Processo, 2024, 327; A. Panzarola, Onere della prova, in Aa.Vv., L’istruzione nel processo amministrativo, a cura di Pesce e Perfetti, Milano, 2024, 159; S. Pini, Verso un nuovo “statuto” del consulente tecnico d’ufficio? in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2023, 327; M. Ubertone, Il giudice e l’esperto. Deferenza epistemica e deferenza semantica nel processo, Torino, 2022; G. Verde, Attualità del principio dell’onere della prova, in Processo, 2024, 625; Id., Diritto processuale civile, 1, 7.ma ed., Bologna, 2025.

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